-Atmosfere poetiche.
-Ironia.
-Dodici euro spesi meglio negli ultimi mesi.
Il teatro rispetto a tutti gli altri "luoghi" di spettacolo ha sempre avuto una valenza speciale. Non è un caso se nell'epoca dell'ipercondiviso web 2.0, il cinema ad effetti speciali 3D e la qualità del Blu-ray casalingo, le rappresentazioni teatrali resistono dai tempi dei greci fino ai giorni nostri. Anche la musica in teatro si spoglia della sua forza adrenalinica, tipica del rock, per vestirsi di suoni più corposi data la buona acustica di questi luoghi, atmosfere cariche di emozioni e sonorità più ricercate. Questo, ovviamente, quando viene organizzato un tour ad Hoc, come quello di Brunori, chiamato ironicamente "Senza Baffi".
Dario Brunori, meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunori Sas è uscito alla ribalta di un certo pubblico curioso in poco tempo. Quasi totalmente ignorato dai network nazionali di radio e tv (anche quelle di "solo musica italianaaaaaaaaa!!!"), ha vinto il premio Tenco come prima opera con "Vol.1", pubblicato un secondo album "Vol.2 - Poveri Cristi e una colonna sonora del film "è nata una star" di Lucio Pellegrini con Luciana Littizzetto.
Al Metastasio di Prato l'italian dandy con occhiali (e a dire il vero anche i baffi!) arriva in un tour acustico con una formazione minore, solo nel numero di musicisti (un trio di fiati, viola, violino, mandolino, tastiere... una vera orchestra!) e un nuovo allestimento scenico. Le canzoni della premiata ditta Brunori Sas sembrano essere nate per l'acustica teatrale, alcune lievi e delicate come "il pugile" o "fra milione di stelle", altri i pezzi riarrangiati come il valzer "la mosca" e la non del tutto convincente "Rosa" (a cui manca la chitarra e il coro finale) e non mancano le nuove songs come "l'asino e il leone" e "amore con riseva" . Tra citazioni ironiche (Beverly Hills 90210 e "Non amarmi" di Aleandro Baldi) e omaggi (Lucio Dalla e Prince), il cantante calabrese è particolarmente in vena di chiacchere, battute con il pubblico... insomma diventa un cabarettista che non ti aspetti!
Tra qualche "dadada" di troppo (di cui il nostro Brunori abbonda) e un clima tra il poetico e l'ironico, con il finale di "Come stai" e "Guardia 82" il concerto è stato un tripudio di meritati applausi, degno del luogo che l'ospitava. Ora manca solo che il "grande" pubblico lo conosca, no?
MG.
giovedì 26 aprile 2012
mercoledì 11 aprile 2012
Blackbird @ Teatro Metastasio - Prato
di David Harrower
traduzione Alessandra Serra
scene Paco Azorin
costumi Chiara Donato
luci Claudio De Pace
con Massimo Popolizio e Anna Della Rosa
e con Silvia Altrui
regia Lluís Pasqual
-Dramma
-Concretezza
-Coraggio
Chi è l’orco cattivo? Non credo che nessuno abbia il benché minimo dubbio nel
condannare un abuso da parte di un adulto su un minore. Perché il contenuto è nudo e semplice: un adulto che ha pagato la sua pena incontra di nuovo l’oggetto del proprio abuso. Quel che risulta meno semplice da capire è il rapporto controverso che si è instaurato in passato tra i due e che prende di nuovo forma. Quanta paura abbiamo di confrontarci con il male? E maggiormente, quanta voglia abbiamo davvero di capirlo? Ci aiuteranno ad affrontare questo drammatico viaggio due attori che in
modo magistrale incarnano l’abusante e l’abusato, talvolta facendoci anche inorridire di fronte a pensieri scabrosi quali: chi è l’abusante e chi l’abusato? È raccapricciante poter pensare anche lontanamente che ci possa essere anche solo una minima comprensione verso un qualcosa che consideriamo il “male assoluto”.
Uno spettacolo che spaventa perché pone dei dubbi, solleva in noi molte domande, e forse la cosa che indispone maggiormente è che non avremo risposte. Ma solo
un’inconsueta e tragica storia d’amore.
Anna Della Rosa è una ormai cresciuta, che ci porta una storia fisica e verbale ricca di drammi vibranti e parole mai dette e che fanno tuttavia molta fatica a prender corpo. Questa fatica ma anche la forza sottostante di Una viene espressa dall’attrice con una grande carica fisica ed una mimica facciale leggera e naturale. Si scontra con questa sua modalità la grinta di Massimo Popolizio, Ray, che riesce ad investire lo spettatore talvolta aggressivamente, talvolta sofferentemente.
Il pubblico non può che restarne spiazzato.
Chi definisse questo dramma, un dramma sulla pedofilia ridurrebbe il senso dei
vissuti dei due protagonisti.
Condivido ciò che ha risposto il regista Lluìs Pasqual alla domanda su cosa avrebbe
voluto che il pubblico ricevesse dalla visione di Blackbird: “Che la gente uscisse da teatro pensando che le cose, le persone, le situazioni non sono così semplici, piatte e banali come in televisione”.
Rizzosi.
traduzione Alessandra Serra
scene Paco Azorin
costumi Chiara Donato
luci Claudio De Pace
con Massimo Popolizio e Anna Della Rosa
e con Silvia Altrui
regia Lluís Pasqual
-Dramma
-Concretezza
-Coraggio
Chi è l’orco cattivo? Non credo che nessuno abbia il benché minimo dubbio nel
condannare un abuso da parte di un adulto su un minore. Perché il contenuto è nudo e semplice: un adulto che ha pagato la sua pena incontra di nuovo l’oggetto del proprio abuso. Quel che risulta meno semplice da capire è il rapporto controverso che si è instaurato in passato tra i due e che prende di nuovo forma. Quanta paura abbiamo di confrontarci con il male? E maggiormente, quanta voglia abbiamo davvero di capirlo? Ci aiuteranno ad affrontare questo drammatico viaggio due attori che in
modo magistrale incarnano l’abusante e l’abusato, talvolta facendoci anche inorridire di fronte a pensieri scabrosi quali: chi è l’abusante e chi l’abusato? È raccapricciante poter pensare anche lontanamente che ci possa essere anche solo una minima comprensione verso un qualcosa che consideriamo il “male assoluto”.
Uno spettacolo che spaventa perché pone dei dubbi, solleva in noi molte domande, e forse la cosa che indispone maggiormente è che non avremo risposte. Ma solo
un’inconsueta e tragica storia d’amore.
Anna Della Rosa è una ormai cresciuta, che ci porta una storia fisica e verbale ricca di drammi vibranti e parole mai dette e che fanno tuttavia molta fatica a prender corpo. Questa fatica ma anche la forza sottostante di Una viene espressa dall’attrice con una grande carica fisica ed una mimica facciale leggera e naturale. Si scontra con questa sua modalità la grinta di Massimo Popolizio, Ray, che riesce ad investire lo spettatore talvolta aggressivamente, talvolta sofferentemente.
Il pubblico non può che restarne spiazzato.
Chi definisse questo dramma, un dramma sulla pedofilia ridurrebbe il senso dei
vissuti dei due protagonisti.
Condivido ciò che ha risposto il regista Lluìs Pasqual alla domanda su cosa avrebbe
voluto che il pubblico ricevesse dalla visione di Blackbird: “Che la gente uscisse da teatro pensando che le cose, le persone, le situazioni non sono così semplici, piatte e banali come in televisione”.
Rizzosi.
domenica 8 aprile 2012
Melancholia di Lars von Trier
-Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg
-Il gusto di un’opera d’arte
-Surrealismo e cinismo
ATTENZIONE: questa recensione contiene spoiler sulla trama del film.
Lo spettatore guarda ed ascolta i primi otto minuti del film e non può che restarne rapito ed affascinato. Nel film di Lars Von Trier si entra in un’opera d’arte, si diventa elemento insostituibile di una realtà parallela. In questa fase c’è l’intero senso del film che viene impresso in modo inequivocabile e senza possibilità da parte della persona di rifiutarlo; vi è il senso dell’intero dramma. Perché di questo si tratta: un dramma interiore ed un dramma legato al genere umano collettivo.
In questi pochi minuti il tempo si coniuga con un movimento realisticamente singhiozzante. Si respira una tensione di fondo che è preludio a… non lo si sa ancora ma si intuisce che ci sia di mezzo la vita e/o la morte.
Solo dopo che lo spettatore si è nutrito di questo prologo può nascere la storia.
È un film intelligente, geniale, apparentemente povero di contenuti.
È come avere sempre in mano due facce della stessa medaglia. Melancholia è la nostra medaglia.
Melancholia non è solo un titolo che dà un’indicazione sul nome di un asteroide ma è anche lo stato d’animo, di vita che accompagna le protagoniste sorelle del film.
Ci troviamo di fronte a due film nel film stesso: uno che ci parla di Justine (Kirsten Dunst) e l’altro della sorella Claire (Charlotte Gainsbourg); apparentemente molto diverse, entrambe colgono la radice comune del male della sofferenza che le porta ad una non vita.
Nel capitolo “Justine” veniamo a conoscenza del mal di vivere di quest’ultima che la porta alla rinuncia di un matrimonio su tutte le carte vantaggioso e potenzialmente ricco di felicità.
Nel secondo capitolo sono le paure e le debolezze di Claire a prendere il sopravvento facendoci conoscere una donna sola malgrado un matrimonio facoltoso, apparentemente perfetto ed appagante.
Questo è il doppio dramma interiore che emerge dal genio di Lars.
Bellezze algide, la Dunst e la Gainsburg (come peraltro la meravigliosa N. Kidman in “Dogville”) che il regista riesce a far brillare nelle loro più intime sfumature; la compostezza disordinata della protagonista ci fa immediatamente pensare al titolo della pellicola e la Dunst è unica nel trasmetterlo.
Poi c’è il dramma umano che ci coinvolge tutti (l’arrivo dell’asteroide Melancholia che distruggerà l’intera razza umana) e che al di là di ogni possibile riscatto personale decide per noi, inglobandoci in un’unica realtà, come chiudendo un cerchio, anzi Il Cerchio. Come lo chiudono le nostre protagoniste nella loro grotta immaginaria, con l’unico grande potere che in fondo abbiamo ricevuto come esseri umani…chiamatelo come volete…amore, comunione, condivisione…
Consiglio spassionato: film da vedere rigorosamente al cinema, in qualche replica estiva, possibilmente in 3D.
Rizzosi.
-Il gusto di un’opera d’arte
-Surrealismo e cinismo
ATTENZIONE: questa recensione contiene spoiler sulla trama del film.
Lo spettatore guarda ed ascolta i primi otto minuti del film e non può che restarne rapito ed affascinato. Nel film di Lars Von Trier si entra in un’opera d’arte, si diventa elemento insostituibile di una realtà parallela. In questa fase c’è l’intero senso del film che viene impresso in modo inequivocabile e senza possibilità da parte della persona di rifiutarlo; vi è il senso dell’intero dramma. Perché di questo si tratta: un dramma interiore ed un dramma legato al genere umano collettivo.
In questi pochi minuti il tempo si coniuga con un movimento realisticamente singhiozzante. Si respira una tensione di fondo che è preludio a… non lo si sa ancora ma si intuisce che ci sia di mezzo la vita e/o la morte.
Solo dopo che lo spettatore si è nutrito di questo prologo può nascere la storia.
È un film intelligente, geniale, apparentemente povero di contenuti.
È come avere sempre in mano due facce della stessa medaglia. Melancholia è la nostra medaglia.
Melancholia non è solo un titolo che dà un’indicazione sul nome di un asteroide ma è anche lo stato d’animo, di vita che accompagna le protagoniste sorelle del film.
Ci troviamo di fronte a due film nel film stesso: uno che ci parla di Justine (Kirsten Dunst) e l’altro della sorella Claire (Charlotte Gainsbourg); apparentemente molto diverse, entrambe colgono la radice comune del male della sofferenza che le porta ad una non vita.
Nel capitolo “Justine” veniamo a conoscenza del mal di vivere di quest’ultima che la porta alla rinuncia di un matrimonio su tutte le carte vantaggioso e potenzialmente ricco di felicità.
Nel secondo capitolo sono le paure e le debolezze di Claire a prendere il sopravvento facendoci conoscere una donna sola malgrado un matrimonio facoltoso, apparentemente perfetto ed appagante.
Questo è il doppio dramma interiore che emerge dal genio di Lars.
Bellezze algide, la Dunst e la Gainsburg (come peraltro la meravigliosa N. Kidman in “Dogville”) che il regista riesce a far brillare nelle loro più intime sfumature; la compostezza disordinata della protagonista ci fa immediatamente pensare al titolo della pellicola e la Dunst è unica nel trasmetterlo.
Poi c’è il dramma umano che ci coinvolge tutti (l’arrivo dell’asteroide Melancholia che distruggerà l’intera razza umana) e che al di là di ogni possibile riscatto personale decide per noi, inglobandoci in un’unica realtà, come chiudendo un cerchio, anzi Il Cerchio. Come lo chiudono le nostre protagoniste nella loro grotta immaginaria, con l’unico grande potere che in fondo abbiamo ricevuto come esseri umani…chiamatelo come volete…amore, comunione, condivisione…
Consiglio spassionato: film da vedere rigorosamente al cinema, in qualche replica estiva, possibilmente in 3D.
Rizzosi.
martedì 3 aprile 2012
Indicative live @ Capanno Blackout.
-Musica Strumentale.
-Atmosfere cupe.
-Videoart.
Si è svolto nella buona cornice acustica (un po' meno di pubblico, forse iniziare a suonare una mezz'ora dopo sarebbe stata una buona idea) del Capanno Blackout il concerto dei palermitani Indicative.
Se si trattasse di musica classica, gli Indicative sarebbero un quartetto strumentale, composto da due chitarristi, un bassista e un energico batterista, nessun cantante, nessuna voce. Ed è proprio con lo spirito strumentale tipico della musica strumentale classica e contemporanea che gli Indicative vanno ascoltati: un suono rock privo di parole che comunica per immagini sonore.
Lo stile della band siciliana non è facilmente classificabile, indicativo appunto, passa da sonorità pese dell'hard rock fino all'elettronica, un suono che ricorda a tratti i Tool a tratti le colonne sonore dei "poliziotteschi" italiani anni '70, forse per assonanze al progressive rock.
La musica degli Indicative fa riferimento proprio al mondo delle colonne sonore, con video surreali e inquietanti a sfondo della loro performance. Un mondo che dovrebbero approfondire, completando il loro live con una suddivisione brano/video migliore, con più contatti tra immagini video e ritmi musicali. Un mondo che gli potrebbe aprire interessanti finestre ad altri ambiti come i videomaker, i cortometraggi e tutti i festival ad essi collegati.
Gli Indicative, con il loro bagaglio di musica rock strumentale sono un'entità forse unica in Italia, curiosa, potente e diretta come può essere la purezza della musica strumentale.
MG.
-Atmosfere cupe.
-Videoart.
Si è svolto nella buona cornice acustica (un po' meno di pubblico, forse iniziare a suonare una mezz'ora dopo sarebbe stata una buona idea) del Capanno Blackout il concerto dei palermitani Indicative.
Se si trattasse di musica classica, gli Indicative sarebbero un quartetto strumentale, composto da due chitarristi, un bassista e un energico batterista, nessun cantante, nessuna voce. Ed è proprio con lo spirito strumentale tipico della musica strumentale classica e contemporanea che gli Indicative vanno ascoltati: un suono rock privo di parole che comunica per immagini sonore.
Lo stile della band siciliana non è facilmente classificabile, indicativo appunto, passa da sonorità pese dell'hard rock fino all'elettronica, un suono che ricorda a tratti i Tool a tratti le colonne sonore dei "poliziotteschi" italiani anni '70, forse per assonanze al progressive rock.
La musica degli Indicative fa riferimento proprio al mondo delle colonne sonore, con video surreali e inquietanti a sfondo della loro performance. Un mondo che dovrebbero approfondire, completando il loro live con una suddivisione brano/video migliore, con più contatti tra immagini video e ritmi musicali. Un mondo che gli potrebbe aprire interessanti finestre ad altri ambiti come i videomaker, i cortometraggi e tutti i festival ad essi collegati.
Gli Indicative, con il loro bagaglio di musica rock strumentale sono un'entità forse unica in Italia, curiosa, potente e diretta come può essere la purezza della musica strumentale.
MG.
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