• Per la storia d’amore fantasy
• Per la colonna sonora
• Per la denuncia della società conformista americana degli anni 50
L’uomo e il mondo marino, una storia d’amore tra diversi, la bellezza e il mistero del mondo fantasy, l’orrore e il forzato conformismo; questi sono i leitmotiv di Shape of Water, vincitore del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia e che si è aggiudicato quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, per il miglior film, il miglior regista, la migliore scenografia e la migliore colonna sonora.
Siamo in piena Guerra Fredda, nella Baltimora della metà degli anni cinquanta. In un laboratorio scientifico lavorano come donne delle pulizie Elisa (Sally Hawkins) e l’afroamericana Zelda (Octavia Spencer). Elisa non parla, è diventata muta in seguito all’asportazione delle corde vocali, episodio traumatico della sua infanzia di cui porta i segni visibili sul collo.
Il colonnello Strickland (Michael Shannon) porta all’interno del suddetto laboratorio un anfibio dalle sembianze antropomorfe per poterlo studiare e per utilizzarlo contro i russi. Il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), spia russa, lavora nel laboratorio e cerca di scoprire le potenzialità dell’anfibio che sembra primeggiare per resistenza e fisicità ad un normale essere umano.
Elisa è una donna solitaria, la cui vita è scandita dal lavoro e dalle chiacchere con il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), artista omosessuale e discriminato sul lavoro che parla il linguaggio dei segni e con il quale ha un dialogo aperto. Per molti tratti il loro rapporto ricorda quello di Nino e Amelie ne Il Favoloso Mondo di Amelie, per l’eccentricità e l’oniricità dei dialoghi, per lo sguardo delicatamente spensierato e di spessore di Elisa.
Elisa incontra per caso l’anfibio e riesce a stabilirci una comunicazione nonostante le diversità e le vasche criogeniche che lo tengono prigioniero. Di nascosto, in un silenzio asettico ma accompagnato dolcemente dalla musica dei vinili che Elisa sceglie con cura per i loro brevi incontri, la donna si innamorerà della creatura, fino a quando l’anfibio torturato e ferito, sta per essere ucciso. Elisa prende allora la pericolosa decisione di farlo fuggire e di liberarlo nell’Oceano, ma il dispotico Strickland indaga e si mette sulle sue tracce.
Questa pellicola parla di amore ma anche di relitti, di emarginati: emarginata è Elisa per il suo forzato mutismo, l’anfibio per la sua mostruosità, per la natura apparentemente pericolosa. Relitto è Zelda, con la sua pelle nera che combatte per poter “essere” sia nella società che a casa, dove la aspetta un marito che non si alza mai dal divano. Relitto è Giles che deve nascondere la sua omosessualità e lo stesso colonello che per adattarsi al conformismo americano, al benpensare borghese, per provare il suo valore, per assicurarsi una vita migliore e lontana da Baltimora, non può fallire e deve ritrovare a tutti i costi la creatura scomparsa.
Del Toro in questa pellicola si schiera a favore del diverso, marcandone le debolezze che si svelano essere in realtà i punti di forza dei personaggi, tutti antagonisti dello spietato Strickland, l’unica vera bestia del film.
La fotografia predilige una scelta cromatica a tinte blu: l’elemento predominante è lo scuro, la notte, l’acqua in cui si sviluppa tutto il lato poetico e visionario della trama.
Le musiche, di uno straordinario Alexandre Desplat, sono oltremodo calzanti: si alternano momenti di oniricità, di gioco, a silenzi opprimenti e carichi di tensione, al suono liquido dell’acqua dove tutto è ovattato e lontano ma dove anche la pulsione sessuale è libera della gravezza metaforica, dove l’immaginario mitologico si scontra con il marciume della società moderna.
“Noi non siamo niente
se non facciamo niente” da Shape of Water.
Voto: 6,5/10
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