mercoledì 17 maggio 2023

Meno per Meno Live 2023

Per milioni di giorni ancora

- Perché in fondo ci manca sempre qualcosa

- Perché Niccolò Fabi è sempre una garanzia




Quanti di noi fanno la vita che hanno scelto?
Quanti di noi si affidano al destino?
Quanti di noi si accorgono che passa il tempo?

Quante domande, quante riflessioni ci fanno fare le canzoni di Niccolò Fabi?

Ogni suo concerto ci fa scattare dentro qualcosa, ogni volta, ed è "magia". Del resto, se vai a vedere il suo spettacolo è perché questa magia la conosci e sai che ti rimane dentro a lungo.

Finalmente Fabi torna con " Meno per Meno Live " tour, un ventaglio di date per il 2023 pieno di novità, nuovi arrangiamenti ed emozioni.



Lo spettacolo si divide in due momenti: nella prima parte il cantautore è unico protagonista e intrattiene gli spettatori con musica, chiacchiere e riflessioni personali mentre nella seconda parte è accompagnato dal team di musicisti che sono ormai per lui compagni fedeli: Roberto Angelini (chitarra acustica ed elettrica, slide, ARP), Alberto Bianco (chitarra e basso) e Filippo Cornaglia (batteria). La novità che da all'evento una ventata di originalità aumentandone la bellezza è l'Orchestra Notturna Clandestina del maestro Enrico Melozzi, già con lui nell'unico concerto del 2022 all'Arena di Verona.




La scaletta della serata ripercorre i 25 anni di carriera dell'autore che sceglie di interpretare le canzoni per lui più emozionanti, che "mi piacciono di più", e che hanno avuto più riscontro in questo lungo periodo, ripescando anche pezzi messi da parte in passato perché simbolo di periodi bui.




Un'esibizione coinvolgente, sentimentale, che ha riempito il Teatro Verdi di Firenze, luogo che da qualche anno ormai ospita i concerti di Fabi, facendo emozionare (e piangere) tutti.



Ma il finale è di certo più teatrale
Così di ogni storia ricordi solo
La sua conclusione

E noi ricordiamo la conclusione spettacolare di questo evento, tra persone ormai in piedi e vicine al palco, tra luci, colori e vibrazioni, tra applausi lunghissimi mai risparmiati e affetto sincero verso il nostro Niccolò.

Non c'è più tempo per aspettare... se non lo avete già fatto, andate a comprare il biglietto per le prossime date!

SCALETTA

  • Milioni di giorni
  • Una somma di piccole cose
  • La bellezza
  • E non è
  • Fuori o dentro
  • Scotta
  • Ora e qui
  • Io sono l'altro
  • Rosso (al posto di Capelli - a Firenze)
  • Lontano da me
  • Andare oltre
  • L'uomo che rimane al buio
  • A prescindere da me
  • Ha perso la città
  • Solo un uomo
  • Al di fuori dell'amore
  • Filosofia agricola
  • Una mano sugli occhi
  • Costruire
  • Una buona idea
  • Lasciarsi un giorno a Roma
marel

venerdì 12 maggio 2023

Il sol dell'avvenire

Ci sono tre film al costo di un biglietto del cinema;

- Se amate Nanni Moretti vedetelo assolutamente;

- Perché il cinema non sarà mai una piattaforma streaming, fortunatamente.





Il sol dell'avvenire è l'ultimo film diretto da Nanni Moretti.

Il regista esprime apertamente il suo disagio verso queste tendenze del cinema italiano, nel paese, nella politica, nella sinistra, e nelle sue relazioni con le persone.

Nel film, Moretti interpreta Giovanni, un regista impegnato nella realizzazione di un film "il sol dell'avvenire" appunto.

Sua moglie, Paola (Margherita Buy), la produttrice lotta con il marito, amandolo e odiandolo e soffre la loro relazione matrimoniale quarantennale.
 
La storia personale si intreccia con scene del film che Giovanni sta realizzando sulla reazione di una sezione romana del PCI alla rivoluzione ungherese del 1956 con protagonista Silvio Orlando (sempre magistrale).
Praticamente questo film sono tre film insieme.





Attraverso le immagini del film di Giovanni sulla repressione dell'insurrezione ungherese del 1956, Moretti racconta storie quotidiane che sembrerebbero surreali se non fossero così vicine alla realtà.

Il protagonista del film improvvisa la trama per cambiare il significato politico al film.
 
Inoltre ci sono rischi della cultura Netflix, dell'omogeneizzazione della cultura, delle difficoltà nel dialogo e nelle relazioni.
Moretti è un regista esperto, e la colonna sonora aiuta lo scorrere del film (ma quanto ama cantare le canzoni italiane Nanni?), a declinare gli anni, a dare significato al film, e ad arricchire il senso dei numerosi riferimenti cinematografici.

Poi c'è la politica. Moretti offre un suo sguardo sul Partito Comunista Italiano, che non si oppose all'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956.

Il film "Il sol dell'avvenire" di Nanni Moretti forse è il suo lavoro migliore degli ultimi tempi.
Gli ammiratori del regista troveranno il suo stile, la sua mitologia e il suo armamentario estetico e drammaturgico nella forma più splendente.
 
Tuttavia, con le dovute precauzioni, il film è in grado di interessare e divertire anche coloro che non sono fan di Moretti.
 
La trama, che indaga sullo spegnersi dei grandi ideali, riguarda tutti, senza distinzioni politiche.
Il finale offre un'inattesa apertura e speranza.
Moretti mette in discussione tutto, incluso se stesso, e la sua ironia e indagine etico-estetica toccano vertici altissimi.

La scena in cui Giovanni che ostacola la conclusione del film prodotto dalla moglie, sarà ricordata tra qualche anno sicuramente nella storia del cinema italiano.
 
Chi lo ama incontrerà Moretti in purezza, che gioca con la sua figura personale.
Chi lo odia forse può vedere lo stesso il film con un po' di sano masochismo.

M.G.

martedì 4 ottobre 2022

Contrappasso

di Andrea Delogu

- un romanzo distopico.
- una riflessione sulla crudeltà verso gli animali.
- un pugno nello stomaco.


                             


In un futuro prossimo, senza alcun motivo apparentemente, se uccidi un animale muori della stessa morte. 

Questa è la legge del contrappasso.
Se calpesti una formica, muori schiacciato. 
Se butti in una pentola di acqua bollente dei gamberi per cucinarli, finisci ustionato.
E così via.

Da questa semplice, terribile e geniale idea comincia il libro di Andrea Delogu edito da Harper's e Collins.

Il futuro dopo il contrappasso è cambiato in peggio.  La sopravvivenza dell'umanità è diventata l'unico scopo di una società totalmente controllata e piena di restrizioni.
Una società che rimane più che mai antidemocratica.

Scoprire i segreti e le orribili cospirazioni di questa società è l'obiettivo della giovane Sara, la protagonista del libro.

Se le invenzioni del libro (per vivere in un mondo dove anche calpestare un insetto o uccidere una zanzara, diventa fatale) sono geniali, lo sviluppo della trama è un po' troppo stereotipato. In particolar modo i personaggi, protagonisti e antagonisti sono quasi dei cliché, ed è un vero peccato. Stessa cosa per le ambientazioni del libro, sembrano ripescaggi da altre opere distopiche. 

La vera forza del libro sono le domande che pone al lettore. Nel nostro attuale presente l'essere umano compie delle vere e proprie violenze barbariche di massa verso gli animali. Li alleviamo negli spazi augusti e senza possibilità di movimento. Uccidiamo in ogni modo pulcini in base al sesso. Creiamo dei polli che crescono così velocemente che non stanno neanche in piedi, perché le loro gambe non reggono il peso del loro petto. Perché tutti vogliono il petto di pollo. Mettiamo incinte le mucche per produrre un latte che poi rubiamo ai vitelli. Anzi, strappiamo i vitelli alle loro madri per macellarli.
E tutto questo alla luce del sole. Un massacro che non è nascosto, è lì a disposizione di tutti.  Ma facciamo finta di ignorare per avere la carne nel piatto.
Il mondo terribile è quello del contrappasso o il nostro?

Un libro che si legge velocemente, pagina dopo pagina, amaro ed efficace. Sicuramente potrebbe diventare un'ottima serie, visto che l'autrice ha annunciato un seguito. 

M.G.


martedì 17 aprile 2018

The Happy Prince: Rupert Everett racconta l’amore di Oscar Wilde


  • Per la bravura di Rupert Everett
  • Perché Oscar Wilde non può essere conosciuto solo per Il ritratto di Dorian gray
  • Per il linguaggio poetico che pervade tutto il film

Rupert Everett attore, sceneggiatore e regista di questo film, ha avuto molte difficoltà a trovare I fondi economici per poter girare “The Happy Prince” e guardando la pellicola si capisce il motivo. Si tratta infatti di un film coraggioso, fuori dagli standard hollywoodiani, che non risparmia niente allo spettatore, d’altronde la poesia è talvolta dolore, poca lucidità e molta passione.

The Happy Prince racconta gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde. Il poeta inglese (interpretato da un quasi irriconoscibile Everett) è uscito dopo due anni di prigione per sodomia, colpevole di aver amato pubblicamente il giovane lord Alfred Douglas (Colin Morgan). Uscito di prigione inizia un esilio fatto di alcool, sesso e droga tra la Normandia, Parigi e Napoli, dove il suo amico e amante Robert Ross (Edwin Thomas) tenterà invano di tenerlo fuori dai guai e soprattutto dal ritorno del giovane lord. Un’ottima fotografia rappresenta a pieno le città toccate dall’esilio di Wilde, mostrandone le caratteristiche e le meschinità dell’epoca, in ritratti particolareggiati come se fossero quadri diversi di ogni singola ambientazione. Il film affronta anche il tema del rapporto tra Wilde e la ex moglie Costance interpretata da un’altrettanta irriconoscibile Emily Watson e i suoi figli, un rapporto segnato da sensi colpa e vigliaccheria.

Poetico, struggente, decadente, appassionato e maledetto The Happy Prince affronta il tema della condanna dell’amore omosessuale, ponendo al centro la figura di Oscar Wilde. Un personaggio di spicco dell’epoca che passa da essere un poeta e commediografo di fama internazionale a essere un reietto e deriso dalla società. Un tema, quello della discriminazione dell’amore omosessuale, sicuramente ancora attuale nella vita odierna come nell’Europa del 1800. Rupert Everett si rivela un regista coraggioso oltre che un ottimo attore, capace di smuovere i sentimenti più contrastanti negli occhi degli spettatori.

M.G.

mercoledì 4 aprile 2018

“Brunori a teatro. Canzoni e monologhi sull’incertezza”


  • Perché viviamo in una vita liquida
  • Per provare un'emozione unica
  • Perché è un quadro preciso dei nostri tempi


Questo è il titolo dello spettacolo teatrale che si poggia sull’ album “A casa tutto bene” di Dario Brunori.  Qui, musica e riflessioni si intrecciano sul letto delle note della sua band; brani cantati e intermezzi parlati si alternano e descrivono il mondo contemporaneo con uno sguardo lucido che coniuga profondità e leggerezza, sacro e profano. La poetica del cantautore calabrese, passa da intelletto, cuore e pancia; quest’ultima è la caratteristica fisica che lo contraddistingue, come lui stesso scherza.

Si parla di paura e di coraggio, di salsicce e sushi brasiliano, di Lamezia e di Milano, dell’ Aspromonte calabrese e della vita rocciosa, ancorata alla terra e alle certezze di altri tempi e della vita liquida della grande metropoli milanese e dell’incertezza del futuro che travolge l’uomo moderno.


Dario Brunori in questo spettacolo si mostra cinico, a “nudo” con le sue paure e con le sue riflessioni profonde che lo connotano più che mai come uomo di pensiero, come intellettuale, mai consolatorio ma che vuole in fondo dirci: “Arrivederci tristezza”.

I monologhi risultano essere concisi, comici, con una vena critica poco velata, in complesso si nota un’ottima gestione dei tempi teatrali e dello spazio scenico.

“Sono canzoni che hanno a che fare con la necessità di affrontare le piccole e grandi paure quotidiane e con la naturale tendenza a cercare un riparo, un rifugio, un luogo in cui sentirsi al sicuro” a detta dello stesso Dario.


Classe 1977, Brunori Sas nasce artisticamente nel 2003 con il collettivo virtuale Minuta. Nel 2009, la svolta cantautorale con il nome d’arte Brunori Sas. Il suo album d’esordio, Vol. 1 è costituito da brani semplici e diretti, ricchi dell’immaginario caratteristico degli anni ’90. Vi si incontrano elementi squisitamente popolari: palloni bucati, ragazzi di provincia, il mare d’inverno, le cotte d’agosto. Dopo due anni e un tour in giro per la penisola, Brunori pubblica, nel 2011, Vol. 2, dalla scrittura amara e speranzosa, focalizzata non più sul racconto autobiografico, ma sulla vita altrui. Il successo sorprendente del 2013 con il nuovo disco – Vol. 3.


A gennaio 2017 risale “A casa tutto bene”, disco d’oro e il cui tour ha registrato sold out in tutte le 18 date del calendario: un percorso tra riso e pianto in cui l’unica certezza è proprio l’incertezza che ci accompagna nella vita quotidiana.

Ca. Mo.

sabato 24 marzo 2018

A casa tutti bene


  • Perché dovremmo tutti partecipare a una riunione di famiglia così
  • Perché non si può non riconoscersi in almeno una di queste storie
  • Perché parla della famiglia senza falsità




Un racconto corale, una riunione di famiglia, una villa su un’isola nelle cui stanze si sviluppano le innumerevoli sottotrame dei personaggi; A casa tutti bene, l’ultima pellicola di Gabriele Muccino, risulta essere ben adatta e funzionale per raccontare una storia.

Con l’occasione di festeggiare le nozze d’oro di Pietro (Ivano Marescotti) e Alba (Stefania Sandrelli), capostipiti della famiglia, tutti i parenti si ritrovano sull’isola di Ischia, dimora della vecchia coppia. Dall’unione dei due sono nati Paolo (Stefano Accorsi), Carlo (Pierfrancesco Favino) e Sara (Sabrina Impacciatore).


Paolo è l’artista anticonvenzionale di famiglia, appena tornato da un viaggio in bici fino alla Terra del fuoco, separato dalla moglie e che ha strane attenzioni per la cugina Isabella (Elena Cucci).
Carlo, divorziato dal primo matrimonio con Elettra (Valeria Solarino), è in costante litigio con Ginevra (Carolina Crescentini) l’attuale moglie nevrotica, gelosa e isterica.
Sara finge di non vedere la crepa nel rapporto col marito Diego (Giampaolo Morelli), arrivando a proporgli di fare un altro figlio insieme.


Sandro (Massimo Ghini) interpreta un malato d’Alzheimer, al cui fianco c’è Beatrice (Claudia Gerini) che vuole abbandonarlo per ritrovare un compagno sano con cui invecchiare.
Riccardo (Gianmarco Tognazzi) è lo squattrinato della famiglia, disperato e patetico, inadatto e inopportuno ma insieme alla compagna Luana (Giulia Michelini), alla fine risultano essere i più veri, caldi e memorabili.


A causa di un improvviso maltempo, che impedisce ai traghetti di ripartire dall’isola, i festeggiamenti si prolungano e si trasformano in una prigionia di più giorni: il fragile confine che separa la quiete dalle liti è adesso labile e l’inquietudine, le urla, l’isterismo vengono rese pura sostanza grazie al vorticare della macchina da presa.


Nonostante il grande numero di attori, Muccino mantiene un equilibrio non facile, riuscendo a caratterizzare ognuno di essi in maniera non piatta anche se a tratti un po’ stereotipata.Il regista vuole chiaramente bene ad ogni personaggio e lo racconta assecondandone passioni e idiosincrasie senza abbellirli, rendendoli verosimili e utili alla composizione di un disegno generale. I personaggi sono qui le tessere di un mosaico, i frammenti di uno specchio che restituisce le varie angolazioni dell’essere famiglia.



Gli attori litigano, piangono, gridano, a tratti si picchiano, ma più di ogni altra cosa parlano. Risulta così essere questo, un film di sceneggiatura, più di quanto non fossero i precedenti.Primeggiano la sincerità, la tangibilità delle fragilità urlate, delle nevrosi ansimanti, delle speranze per il futuro. Muccino non gli offre alcun alibi perché non attribuisce alcuna colpa.Perché la famiglia è il luogo da cui ti allontani ma poi ritorni, dove sei più vero. Quello che i veri romantici cercano nonostante sappiano che falliranno, come dice scherzando Pierfrancesco Favino.La sceneggiatura, di cui Muccino è coautore con Paolo Costella, la scelta dell’unità di luogo, sottolineano la forte claustrofobia emotiva e visiva, l’immaturità, le fughe dalla realtà, dai sentimenti tout court.


Li trovo così inquieti, i miei figli”, è la frase che a un certo punto pronuncia la Sandrelli, prima di addormentarsi. Con un’alzata di spalle, il marito le risponde “Troveranno la loro serenità”; che un po’ è come dire ‘c’est la vie!’, bisogna sapersela cavare per non soccombere. Una Sandrelli, spesso disorientata da ciò che conosce bene ma che finge di ignorare, che rivela essere uno dei personaggi più solidi che non si lascia smuovere dalla tempesta, che ha imparato a sopravvivere con l’esperienza in un mondo che si regge su falsi equilibri, sentimenti contraddittori e vite depresse. In una parola, la famiglia.





La splendida fotografia di Shane Hurlbut e il montaggio di Claudio Di Mauro incorniciano la visione del loro autore, riempendo di senso e di sentimento spazi, visi, scorci, tempi.



Le musiche di Piovani riempiono forse troppo lo spazio, essendo capaci, con la loro presenza di scatenare ed eccitare gli attori, portandoli agli eccessi, ad essere travolti dalla narrazione visiva, non lasciando spazio ai necessari vuoti di sospensione.

Le vite normali non esistono”.

Voto: 6,5 su 10
Ca. Mo.



lunedì 19 marzo 2018

The Shape of Water


• Per la storia d’amore fantasy
• Per la colonna sonora
• Per la denuncia della società conformista americana degli anni 50




L’uomo e il mondo marino, una storia d’amore tra diversi, la bellezza e il mistero del mondo fantasy, l’orrore e il forzato conformismo; questi sono i leitmotiv di Shape of Water, vincitore del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia e che si è aggiudicato quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, per il miglior film, il miglior regista, la migliore scenografia e la migliore colonna sonora.

Siamo in piena Guerra Fredda, nella Baltimora della metà degli anni cinquanta. In un laboratorio scientifico lavorano come donne delle pulizie Elisa (Sally Hawkins) e l’afroamericana Zelda (Octavia Spencer). Elisa non parla, è diventata muta in seguito all’asportazione delle corde vocali, episodio traumatico della sua infanzia di cui porta i segni visibili sul collo.


Il colonnello Strickland (Michael Shannon) porta all’interno del suddetto laboratorio un anfibio dalle sembianze antropomorfe per poterlo studiare e per utilizzarlo contro i russi. Il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), spia russa, lavora nel laboratorio e cerca di scoprire le potenzialità dell’anfibio che sembra primeggiare per resistenza e fisicità ad un normale essere umano.

Elisa è una donna solitaria, la cui vita è scandita dal lavoro e dalle chiacchere con il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), artista omosessuale e discriminato sul lavoro che parla il linguaggio dei segni e con il quale ha un dialogo aperto. Per molti tratti il loro rapporto ricorda quello di Nino e Amelie ne Il Favoloso Mondo di Amelie, per l’eccentricità e l’oniricità dei dialoghi, per lo sguardo delicatamente spensierato e di spessore di Elisa.

Elisa incontra per caso l’anfibio e riesce a stabilirci una comunicazione nonostante le diversità e le vasche criogeniche che lo tengono prigioniero. Di nascosto, in un silenzio asettico ma accompagnato dolcemente dalla musica dei vinili che Elisa sceglie con cura per i loro brevi incontri, la donna si innamorerà della creatura, fino a quando l’anfibio torturato e ferito, sta per essere ucciso. Elisa prende allora la pericolosa decisione di farlo fuggire e di liberarlo nell’Oceano, ma il dispotico Strickland indaga e si mette sulle sue tracce.



Questa pellicola parla di amore ma anche di relitti, di emarginati: emarginata è Elisa per il suo forzato mutismo, l’anfibio per la sua mostruosità, per la natura apparentemente pericolosa. Relitto è Zelda, con la sua pelle nera che combatte per poter “essere” sia nella società che a casa, dove la aspetta un marito che non si alza mai dal divano. Relitto è Giles che deve nascondere la sua omosessualità e lo stesso colonello che per adattarsi al conformismo americano, al benpensare borghese, per provare il suo valore, per assicurarsi una vita migliore e lontana da Baltimora, non può fallire e deve ritrovare a tutti i costi la creatura scomparsa.


Del Toro in questa pellicola si schiera a favore del diverso, marcandone le debolezze che si svelano essere in realtà i punti di forza dei personaggi, tutti antagonisti dello spietato Strickland, l’unica vera bestia del film.

La fotografia predilige una scelta cromatica a tinte blu: l’elemento predominante è lo scuro, la notte, l’acqua in cui si sviluppa tutto il lato poetico e visionario della trama.

Le musiche, di uno straordinario Alexandre Desplat, sono oltremodo calzanti: si alternano momenti di oniricità, di gioco, a silenzi opprimenti e carichi di tensione, al suono liquido dell’acqua dove tutto è ovattato e lontano ma dove anche la pulsione sessuale è libera della gravezza metaforica, dove l’immaginario mitologico si scontra con il marciume della società moderna.

“Noi non siamo niente se non facciamo niente” da Shape of Water.

Voto: 6,5/10

Ca. Mo.